Negli ultimi diecimila anni, il pianeta si è ristretto di mille volte, siamo mille volte più numerosi, mille volte più poveri di spazio, mille volte più veloci nel percorrerlo e cento volte più ingordi di energia. Ora il mondo non è più abbastanza vasto per scoprire nuove terre, non c’è più un altrove dove andare: il pianeta Terra è per tutti il solo villaggio in cui vivere. Un villaggio affollato e teso, profondamente diseguale e ingiusto, sull’orlo della catastrofe ambientale. Un villaggio che dovrà accogliere, con molta probabilità, altri tre-quattro miliardi di essere umani nel prossimo mezzo secolo (da nutrire, vestire, alloggiare, istruire, far lavorare…). Il XXI è il secolo dei limiti: sarà intorno a questi, e non nel loro sistematico abbattimento, che dovremo imparare a costruire la nostra futura esistenza. Eppure, è proprio lo spettro della catastrofe possibile a generare le condizioni per un abbraccio fraterno: mai come oggi possiamo essere capaci di empatia e solidarietà. Servono consapevolezze profonde e scelte coraggiose, all’altezza del tempo:
1) oltrepassare i confini (innanzitutto mentali) del “container etnico” e delle sue false promesse di securizzazione (esclusiva ed escludente) alimentate dalla paura, senza rinunciare a quella intimità “etnica” di cui parlava Langer (ma estesa a tutto il villaggio globale, secondo una logica di cittadinanza inclusiva e planetaria, che deve reggersi sul principio della fratellanza universale);
2) oltrepassare il canto delle Sirene del mercato, di un godimento che acceca il desiderio, perché senza limite.
È stato proprio questo desiderio di potenza e di godimento a “violentare” la Terra, per estrarne sistematicamente “valore”. “Senza famiglia, né leggi, né focolare domestico”: queste sono la condizione e il destino di molti migranti. Che cosa risponderemo? “Questa sia la vostra terra, la vostra famiglia e il vostro focolare domestico”. Perché queste cose non sono “nostre”, ma di tutti gli umani, non sono oggetto di proprietà, ma di cura e condivisione. Quindi non sono dette e stabilite una volta per tutte da una tradizione, ma costruite nel dialogo, in una sorta di “danza che crea” di e tra corpi, racconti, sguardi, desideri… Una specie africana giovane, inventiva ed espansiva, a partire dalla sua unità ha saputo generare la diversità. Ora, sull’orlo dell’abisso e del caos, proprio dalla storia della diversità si può imparare a (ri)costruire la sua unità.
Migrazioni: l’uomo è un animale nomade, un cantiere aperto, mai compiuto, che ha nel migrare la sua principale molla di apprendimento. Da più di centomila anni, le migrazioni umane sono state costanti e costitutive del “progetto” antropologico: è muovendoci che abbiamo imparato, scoperto, cercato di migliorare la nostra condizione. È muovendoci che abbiamo differenziato i volti, le lingue e le culture, reso più ricca e diversificata l’esperienza umana. Le migliaia di lingue e di culture dell’umanità sono altrettanti tentativi riusciti di abitare l’ambiente terrestre e propagare la specie. Forse è giunto il momento che queste differenze comincino un altro viaggio, non nello spazio, in un fuori, ma dentro e tra esse, perché ciascuna è un prezioso contributo da portare all’evoluzione, mai completata, dell’umanità.
Cittadinanza: è un principio di fondamentale importanza perché rappresenta una patente di accesso ai diritti; uno spartiacque tra chi è in e chi è out. Ma la cittadinanza ha bisogno di uno sfondamento teorico per uscire dai confini dell’ethnos ed entrare nello spazio del demos, passare dallo jus sanguinis per entrare nello jus soli. Anche la tripartizione classica della cittadinanza (stabilita dallo studioso inglese Thomas Marshall) non basta più: oltre alla cittadinanza legale, politica e sociale abbiamo bisogno della cittadinanza simbolica. Ossia di riconoscere il diritto ai simboli sia religiosi sia culturali (abbigliamento, alimentazione, calendario, ritualità, usanze…).
Il tema della cittadinanza è legato anche a quello dell’uguaglianza nelle condizioni di accesso alle opportunità, quindi è anche un tema di giustizia. “…Quando oggi parliamo di cittadinanza, e dei diritti che l’accompagnano, il suo fondamento non è più soltanto nell’appartenenza ad un territorio o ad un gruppo. Nella comune natura umana risiedono diritti che ciascuno porta con sé quale che sia il luogo dove si trova o la sua storia familiare, come sono quelli legati alla salute o all’istruzione o al lavoro, al rispetto della dignità. La cittadinanza diventa così una idea unificante, non lo strumento che distingue e divide le persone: individua un patrimonio universale.” (Stefano Rodotà, L’umanità e i suoi nemici, La Repubblica, 16 settembre 2006, p. 53).
Etica pubblica: nessuno ha il monopolio dell’etica poiché le regole devono essere stabilite insieme, se si vuole garantire la coesione sociale. Questo significa impegnarci a costruire insieme un comune ethos civile, dove siano ben definiti i principi e le regole della convivenza. Se vogliamo con-vivere insieme, nella pluralità e nella coesione sociale, abbiamo bisogno di una grande azione di pedagogia sociale. Questa è una via preziosa all’interculturalità, come grammatica di civilizzazione, perché nella com-presenza delle culture, delle religioni e dei simboli è inscritto il futuro dell’umanità. Per fare ciò, crediamo che sia poco utile partire da valori astratti, quanto dalla concretezza della relazione con l’altro, che rappresenta un limite al mio potere, ma è anche la mia costitutiva possibilità di realizzazione.
Ciò chiede responsabilità, umiltà, senso del limite e capacità (leopardiana) di diventare compartecipi della comune fragilità umana. Ciò significa che la comunità futura non può essere basata solo sulla mediazione di interessi, ma sul dono e su quello che chiamiamo amore per il prossimo.